Cerco, leggo e
riporto, affinché si conosca la storia della propria terra e delle
proprie origini.
Perché sia finalmente resa
pubblica l'infamia iniziata e perpetrata dal governo sabaudo, e continuata
dalla ignoranza, dalla incapacità, dalle fatue manie di grandezza e dalla
arroganza di chi gli è succeduto nel tempo.
La viltà e la vigliaccheria di chi è
riuscito per 150 anni a nascondere la verità a sé e agli altri.
La viltà e la vigliaccheria
di un re e di un governo che ha procurato morte, distruzione,
depauperazione diffondendo calunnie e infamando una nazione e un popolo.
Infamie e calunnie che ancora
oggi, a 153 anni di distanza vengono ripetute e sollecitate approfittando della
credulità e dell'ignoranza ampiamente diffusa in una nazione di sessanta
milioni di persone che inermi assistono alla loro virtuale fucilazione.
Per far conoscere il vero volto
di colui definito "re galantuomo" ancor oggi ritenuto "padre
della patria".
Di padri così il "Regno
delle Due Sicilie" non ne aveva mai avuti e non ne avrebbe avuto bisogno:
i padri in genere danno ai figli la vita, non la tolgono!
Dal 1861 a oggi sono state e sono
senza alcuna soluzione di continuità morte e distruzione.
E quando tutto sarà finalmente
finito resteranno solo loro: seduti sugli scranni del parlamento continuando a
litigare e votando leggi e decreti non rendendosi neanche conto che non c'è più
nulla da governare né possibilità di applicazione delle leggi emanate.
Come già oggi: come le leggi sul
lavoro promulgate quando ormai il lavoro non c'è più, è finito!
Fonte:
“Il SUD Quotidiano” del 8/2/97
Pagina ripresa da "Eleaml.org" - http://www.eleaml.org/
Il 13
febbraio 1861 a Gaeta finivano tragicamente la libertà e l’indipendenza
dell’antico e prospero Regno del Sud
Con la
caduta della piazza dove per tre mesi 10000 napoletani con alla testa i loro
giovani sovrani si erano eroicamente battuti di fronte all’intero esercito
piemontese, iniziava una tragica parabola che in breve avrebbe trasformato una
Nazione in una Colonia
di Roberto Maria Selvaggi
Alle tre
del mattino del 2 novembre 1860 l’esercito napoletano, o almeno quel che ne
rimaneva di quell’armata che dai primi di settembre combatteva una guerra
estenuante, dovette abbandonare le posizioni lungo il fiume Garigliano.
La flotta
francese, che aveva impedito a quella piemontese di cannoneggiare la costa,
dovette all’improvviso ritirarsi: Cavour aveva un’altra volta convinto
Napoleone III a desistere dal proteggere i napoletani.
Amm. Le
Barbier de Tinan
L’ammiraglio
francese Le Barbier de Tinan, che nutriva un profondo disprezzo per i
piemontesi e per la loro barbara aggressione, dovette suo malgrado obbedire, ed
ottenere soltanto di presidiare l’area antistante Gaeta.
Non mancò
però di togliersi la soddisfazione di tirare qualche bordata contro le navi
piemontesi che sconfinavano.
La flotta
piemontese fu rafforzata da unità napoletane i cui ufficiali erano passati al
nemico, equipaggiate da personale piemontese raccogliticcio, a causa della
fedeltà assoluta dimostrata dai marinai napoletani che si recarono in massa a
Gaeta.
Una
batteria di artiglieria fu messa in campo in tutta fretta sulla vecchia torre
di Formia al comando di un ufficiale svizzero, il capitano Enrico Fevot e del
suo sottoposto tenente Casimiro Brunner: morirono tutti, ufficiali e soldati,
ma prima di soccombere riuscirono a danneggiare gravemente alcune navi
piemontesi.
A Mola si
svolse una prima battaglia, nella quale i napoletani difesero palmo a palmo il
passaggio, consentendo a buona parte dell’esercito di prendere la strada per
Itri e Fondi.
In quella
furiosa battaglia fu ferito gravemente l’anziano capitano del 10° cacciatori,
Ferdinando De Filippis, che morirà in ospedale il 21 novembre dopo una
straziante agonia.
Ristretti
ormai al campo di Montesecco, antistante Gaeta, i napoletani per tre giorni e
tre notti tennero le posizioni contro un esercito che li sovrastava in uomini e
materiali, perdendo ben 2400 uomini tra morti, feriti e prigionieri.
Re
Francesco allora comandò che l’esercito entrasse nella piazza, e a questo punto
iniziò il vero e proprio assedio di Gaeta, una pagina che lascerà al popolo
napoletano la memoria di una fine gloriosa e dignitosa, che rimarrà di esempio
per i posteri.
Dal 12
novembre 1860 al 13 febbraio 1861 diecimila uomini decimati dalle fatiche, dai
bombardamenti e dal tifo resistettero, senza mai piegarsi, ad un assedio
condotto da vili quali furono gli uomini di Enrico Cialdini.
Con
l’impiego dei modernissimi cannoni rigati, l’ex avventuriero romagnolo,
divenuto generale piemontese, poté dalla sua comoda poltrona sul terrazzo della
modesta villa privata comprata da Ferdinando II a Mola, far bombardare senza
essere colpito la piazza ed i suoi abitanti.
La
presenza del Re e della Regina fu determinante per tenere sempre alto il morale
della guarnigione. La fedelissima isola di Ponza rifornì incessantemente la
piazza di vettovaglie e generi vari, per mezzo dei suoi pescatori che mai
dimenticarono che la loro stessa esistenza era dovuta alla lungimiranza dei
Borbone, che colonizzarono l’isola a spese dello Stato.
Il
maggiore Pietro Quandel fu incaricato di tenere il giornale degli avvenimenti
dell’assedio e, grazie al suo lavoro poi pubblicato a Roma, abbiamo i
particolari giornalieri di quell’avvenimento.
Il 29
novembre all’alba con una colonna di 440 soldati uscì dalla cittadina per
compiere una importante ricognizione, onde scoprire lo stato di avanzamento dei
lavori del nemico. Comandava la colonna il Tenente Colonnello dello stato
maggiore Aloysio Migy, svizzero ormai naturalizzato napoletano.
Compiuta
l’operazione nel più assoluto silenzio, il distaccamento si apprestava a
rientrare nella piazza quando il nemico si accorse della loro presenza, ed attaccò
la colonna con forze nettamente superiori. Migy si batté da leone, finché non
fu colpito mortalmente da una scarica di fucileria insieme a tre suoi soldati.
Il Re
volle che gli fossero tributati i massimi onori, e lo fece tumulare nel Duomo.
Il 2 dicembre
partì da Gaeta, non senza protestare, l’ottantenne Tenente Generale Pietro
Vial, indomito soldato, al quale il Re volle evitare, a causa dell’età
avanzata, le immani fatiche dell’assedio. Vial morirà in Roma, in esilio,
alcuni anni dopo, ed è sepolto nella Chiesa della Nazione Napoletana, in via
Giulia.
Il
governo della piazza fu assunto dal Brigadiere Gennaro Ma rulli, ufficiale
giovane ed esperto.
Il 4
dicembre il Re emanò un proclama ai soldati, nel quale li incoraggiava a
dimostrare il loro valore ed a difendere la causa del diritto e l’onore della
Bandiera napoletana: “Voi avete ad emulare una guarnigione più antica quale è
quella che nel 1806 resistette con impareggiabile valore agli attacchi dei
primi soldati del mondo”.
L’inverno
del 1860 fu fra i più freddi del secolo. Neve pioggia e vento battente
flagellarono le coste tirreniche, ma il vero nemico della guarnigione fu il
micidiale tifo, che si manifestò ai primi di dicembre e che mieterà un numero
impressionante di vittime civili e militari, tra cui i generali i generali de
Sangro, Ferrari e Caracciolo di San Vito.
Il
generale Antonio Ulloa fu inviato a Marsiglia per trattare la vendita di tre
navi militari ferme in quel porto per riparazioni. Con i denari ricavati si
poté dare un po’ di sollievo alla guarnigione ed ai suoi ospedali ricolmi di
feriti.
Il
governo piemontese tentò di impedire la vendita sostenendo che i piroscafi
erano ormai di sua proprietà, ma i tribunali francesi giudicarono diversamente,
proclamando che l’unico Re delle Due Sicilie si trovava ancora sul suo
territorio, ed era solo vittima di una vergognosa aggressione.
Il 14
dicembre venne ridotto drasticamente l’organico della guarnigione che era in
assoluta sovrabbondanza, molti corpi furono sciolti e gli uomini inviati nello
Stato Pontificio.
Rimasero
così nella piazza fino al termine 994 ufficiali ed impiegati e 12219 soldati.
Il 20
dicembre gli ufficiali inviarono al Re un messaggio, nel quale ribadirono la
loro ferma intenzione di resistere ad oltranza, per tener fede al giuramento
dato:
“Signore, in mezzo ai disgraziati avvenimenti, dei quali la tristizia dei
tempi ci ha fatto spettatori afflitti ed indignati, noi sottoscritti Ufficiali
della Guarnigione di Gaeta, uniti in una ferma volontà, veniamo a rinnovare
l’omaggio della nostra fede innanzi al trono di V. M. renduto più venerabile e
più splendido dalla sventura.
Nel
cinger la spada noi giurammo, che la bandiera confidataci da Vostra Maestà
sarebbe stata da noi difesa anche a prezzo di tutto il nostro sangue: noi intendiamo
restare fedeli al nostro giuramento. Quali che sieno per essere le privazioni,
le sofferenze, i pericoli, ai quali la voce dei nostri Capi ci chiami, noi
sacrificheremmo con gioia le nostre fortune, la nostra vita ed ogni altro bene
pel successo o pei bisogni della causa comune. Gelosi custodi di quell’onor
militare che, solo, distingue il soldato dal bandito, noi vogliamo mostrare a
V. M. ed all’Europa intera che, se molti dei nostri col tradimento o con la
viltà macchiarono il nome dell’Esercito Napoletano, grande fu anche il numero
di quelli che si sforzarono di trasmetterlo puro e senza macchia alla
posterità.
Sia che
il nostro destino si trovi presso a decidersi, sia che una lunga serie di lotte
e di sofferenze ci attenda ancora, noi affronteremo la nostra sorte con
rassegnazione e senza paura; noi andremo incontro alle gioie del trionfo o alla
morte dei bravi con la calma fiera e dignitosa che si conviene a soldati,
ripetendo il nostro vecchio grido VIVA IL RE”.
Il 7
gennaio il Re, la Regina ed i Principi Reali Conti di Trani e Caserta dovettero
abbandonare i palazzi nei quali erano stati ospitati, perché i colpi nemici li
avevano ripetutamente danneggiati, e si trasferirono tutti in una modesta
casamatta della batteria Ferdinando.
Per
iniziativa dell’imperatore francese Napoleone III fu stabilita una tregua
dall’8 al 19 gennaio, in considerazione della partenza della flotta francese,
che da quel giorno non avrebbe più garantito la città dal mare.
Scopo
dell’armistizio era quello di convincere Francesco II ad abbandonare Gaeta,
avendo ormai salvato l’onore.
Pochi
giorni prima del suo scadere i rappresentanti diplomatici di Austria, Prussica,
Sassonia, Baviera, Belgio, Paesi Bassi, Portogallo, Brasile, Toscana, Russia e
Stato Pontificio raggiunsero Gaeta per presentare i loro omaggi al Re.
Nonostante gli ordini dei loro governi rimasero nella piazza a sopportare i
disagi ed i pericoli dell’assedio solo i ministri di Spagna, Austria, Baviera,
Sassonia ed il Nunzio Apostolico.
Il 15
gennaio Francesco II, all’approssimarsi della scadenza della tregua e della
partenza della flotta francese, scrisse una nobile lettera all’Imperatore, che
lo esortava a cedere:
“Come cedere, quando in tutte le province del mio Regno
con sentimento spontaneo si insorge contro la dominazione piemontese? Il mio
diritto è ora il solo mio patrimonio, ed è mestiere che per difenderlo io mi
faccia seppellire, se necessario, sotto le fumanti rovine di Gaeta. Ho fatto
ogni sforzo per persuadere S. M. la Regina a separarsi da me. Ella vuole
dividere con me la mia fortuna, consacrandosi alle cure degli ammalati e dei
feriti. Da questa sera Gaeta conta nelle sue mura una suora di carità in più”.
Il 22
gennaio, unilateralmente, i napoletani decisero di riaprire il fuoco.
Alle 8
del mattino un colpo della batteria Regina dette il segnale: fu una giornata
memorabile.
La flotta
piemontese dovette allontanarsi per i danni che i colpi della piazza le avevano
inferto: oltre 10000 colpi furono sparati dai napoletani, a dimostrazione che
non si sarebbero arresi.
Il nemico
ne sparò oltre 18000, ma il morale napoletano rimase alle stelle.
Ad ogni colpo
echeggiava il grido VIVA IL RE, e le bande militari intonavano l’inno di
Paisiello. Ad ogni colpo mancato dal nemico una selva di uomini aveva ancora il
morale ed il coraggio di fare gesti irripetibili dall’alto dei parapetti delle
batterie.
L’11
febbraio il Re prese la decisione di interrompere la carneficina. Il colonnello
Delli Franci fu inviato a parlamentare, ed a presentare una proposta di
armistizio cui far seguire una vera e propria capitolazione.
Ormai i
piemontesi tiravano soltanto da molto lontano, e non prendevano mai
l’iniziativa di assaltare la piazza: “li prenderemo per fame” scrisse Cialdini
a Cavour, naturalmente in perfetto francese visto che l’italiano non era molto
contemplato da questi signori.
Quando
iniziarono le trattative il vile assassino Cialdini non volle interrompere i
bombardamenti, anzi li rinnovò con maggiore accanimento perché “sotto il tiro
dei cannoni cederanno a condizioni più vantaggiose per noi”, scriveva ancora il
generale a Cavour.
Fu così
che a capitolazione già firmata venne centrata la polveriera della batteria
Transilvania, dove morì l’ultimo difensore di Gaeta.
Un ragazzo di sedici anni,
Carlo Giordano, fuggito dalla Nunziatella per difendere la sua Patria. Egli non
ha degna sepoltura, come non la hanno i tremila altri caduti di caduti di Gaeta
perché, è bene saperlo, solo nel 1881 i parenti dei generali de Sangro e
Caracciolo ebbero l’autorizzazione di apporre i nomi dei loro congiunti su di
una lapide commemorativa.
I
poveretti, gli umili, stanno ancora sotto la terra di Gaeta, magari nelle
fondamenta di qualche nuovo ed orrendo palazzo costruito dai barbari che
l’hanno calpestata dopo la resa.
La memoria
dell’assedio e della sua meravigliosa difesa non passerà… Gaeta è stata punita
più volte per la sua fedeltà a prova di bomba: è stata un famoso carcere
militare, è stata retrocessa da vicecapoluogo provinciale a città qualsiasi, ed
infine forzatamente collocata nel Lazio, in provincia di Latina.
La
partenza del Re quella notte del 14 febbraio fu la prima di una serie di
milioni di partenze di meridionali alla ricerca della dignità e di un futuro
non di fame nera.
E’ bene non
dimenticarlo.
Testo ripreso da "Eleaml" con inserito il Link diretto al testo, e a supporto di quanto da me testualmente ripreso e in buona fede riportato inserisco quanto dichiarato in merito:
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