mercoledì 25 giugno 2008

Cinquanta centesimi.

Ruggiero camminava pensieroso borbottando, tra sé e sè, per via dei cinquanta centesimi che gli mancavano per raggiungere la somma da destinare all'acquisto di un nuovo pacchetto di sigarette.

L'ultima del precedente l'aveva ormai spenta da oltre tre ore, e sentiva di stare entrando in crisi d'astinenza.

Il bisogno di fumare lo stava irritando al punto di non accorgersi di quello che gli accadeva intorno, e nemmeno del mendicante Elpidio, che come sempre stazionava con la mano tesa a “coppetto” con sopra poche monete, giusto all'angolo della piazza.

Elpidio usava sistemarsi proprio accanto all'uscita – che era anche ingresso in verità – del bar “Il Paradiso del café” - con una sola “effe”, perchè così sembrava più naturale – di Eduardo.

Ogni tanto un nome normale.

Era convinto che quello fosse un buon posto.

Chi mai, dopo aver sorbito uno dei cafè più buoni del paese, non si sarebbe sentito tanto in pace con se stesso da rifiutare una breve mancia uscendo dal bar?

Praticamente quasi tutti.

E questa cosa tormentava molto il cuore, il pensiero e la tasca di Elpidio-

Il brav'uomo però, che non riusciva a rassegnarsi ad un'idea era stata infelice, diabolicamente nemmeno smetteva di insistere cambiando posto.

Ruggiero era frettolosamente uscito dalla tabaccheria di Eulalio (ci mancava da tempo un nome così), a pochi numeri civici dal bar, appena si era reso conto di non riuscire, seppure di poco, con i soldi che aveva nel portamonete a raggiungere l'importo che gli sarebbe servito.

Nella fretta di uscire di casa, aveva dimenticato di portare con sé il portafogli.

Per un momento aveva anche pensato ad un furto con destrezza ma poi, rifacendo il percorso mentalmente, si era reso conto di averlo lasciato sullo scrittoio in camera da pranzo.

Ruggiero dunque, lo avevamo lasciato nel mentre, borbottando da solo distrattamente, raggiungeva il punto dove Elpidio svolgeva stoicamente il suo ingrato ed infelice compito.

Quest'ultimo vedendolo arrivare, sperando in un gesto di improvvisa generosità da parte di Ruggiero, generosità sulla quale nessuno avrebbe mai scommesso un centesimo per cui non è dato sapere da dove gli venisse questa pia illusione, stendendo il braccio destro, con la solita mano acconciata “a coppa” e con dentro alcune monetine messe lì ad invogliare, gli si faceva da presso osando timidamente “Qualche spicciolo per le sigarette, signore?”

Il volto di Ruggiero si illuminò.

Sorridente ringraziò Elpidio riptutamente e si scelse quanto bastava per raggiungere l'importo mancante, e di corsa tornando indietro raggiunse la tabaccheria nella quale entrò trionfante, lasciando Elpidio con un palmo di naso.


lunedì 23 giugno 2008

Mezza pensione....

Vedo passarmi davanti i piatti destinati agli altri commensali.

Abbondanti e saporosi.

Contento mi frego le mani pensando a quando arriverà il mio.

La pasta è tanta e par buona,

la fame non manca,

sul ponte sventola bandiera bianca!”

Poi la delusione.

L'impressione è che il contenuto del mio piatto sia giusto la metà di quello degli altri.

Sarà colpa della “mezza pensione”?

Mi chiedo se sono il solo a “mezza pensione”; cerco di gettare lo sguardo tra i tavoli che mi stanno intorno per scoprire la presenza del biglietto rivelatore.

Sarà che come l'erba del vicino è la più verde anche il piatto del vicino è il più corposo, ma intanto a me sembra proprio che ci sia qualcosa che non va.

L'impressione è che il mio, di piatto, si svuoti prima di chi sembra aver ricevuto la stessa quantità di minestra prima di me.

Vuoi vedere che stava terminando proprio quando ho ordinato io?

Intanto sarà la fame, ma ci dò dentro col pane finchè nel piatto rimane solo la porcellana bianca.

Mi viene quasi la preoccupazione di dover scoprire la realtà di un increscioso algoritmo:
"Mezza pensione uguale mezza porzione".

Deluso e soprattutto con l'atroce dubbio che rimane, mi alzo dal tavolo, vado a pagare e salgo in camera.

Mi rifarò con la colazione.

L'indomani.

Visita di cortesia 1

Mammà, buongiorno!

Come state?

Stamattina come vi sentite?

No! inutile che vi guardate intorno: vostra figlia non ci sta; sono venuto da solo. Sono venuto per fare una cosa che lei non capirebbe. Voi si; la possiamo capire solo voi ed io.

Li vedete quelli? Sì, proprio quelli: i lumini!

Ve li ha portati vostra nuora. La moglie di vostro figlio.

No, e non le dite queste parole che dove state voi non sta bene. Trovate qualcuno che se la prende a male e che succede? Non ne vale la pena.

...eh ma io me lo immaginavo che vi sareste incazzata, perciò sono venuto oggi...!

Eh, e già, veniva solo lui!

Ma che ci volete fare: quella neppure qui lo lascia venire da solo!

Anzi proprio qui gli sta "'ncuollo 'ncuollo". D'altra parte ha sempre avuto paura della vostra presenza e figuratevi ora che siete presente più di prima!

Mammà, mo' vi dico perché sono venuto da solo.

Sono venuto a togliervi i lumini che vi ha portato vostra nuora e a mettervi quelli che vi ho portato io perchè quelli non vi servono a niente.

Quelli sono lumini che vi fanno luce solo quando è buio. I miei no!

I miei vi danno luce pure quando c'è il sole.

Ecco fatto!

Mo' però me ne devo andare!

Mammà vi saluto.

Ci vediamo un'altra volta.

Vengo pure con vostra figlia.

Ah! ma è una fissazione! E che ve ne fate delle caramelle?

Mica che non ve le voglio portare! Vi siete scordata che non ve le potete mangiare?

Io tengo le liquirizie nella borsa; tutt'al più se ne volete una... Ma no, che poi vi lasciano la bocca brutta.

Buona giornata!

venerdì 20 giugno 2008

Solitudine

Le mani. La prima cosa che ho guardato sono state le mani.
Guardo sempre le mani della gente che incontro.
Si possono capire tante cose già guardando solo le mani.
Piegato su di se quasi che il vassoio che reggeva con dentro il piatto dell'unica pietanza, un risotto, e la bottiglietta d'acqua, lo facesse sbilanciare.
Doveva essere stato un bell'uomo e di statura non indifferente.
La solitudine aveva irrigidito i tratti del volto che non riuscivano a distendere le rughe imposte dal tempo.
Mise con cura il resto nel borsellino. Poi sistemò il vassoio e dalla tasca del soprabito che si lasciò indosso, troppo leggero per la temperatura di quel giorno, tirò fuori una radio a transistor.
La accese sintonizzandola su una stazione musicale che non conoscevo.
La sistemò dinanzi al piatto, acconciò la bottiglietta d'acqua ed iniziò a rimestare nel piatto per amalgamarne il contenuto. Lentamente incominciò a mangiare.
Il rumore della folla vociante in partenza, non sembrava infastidirlo. Era certamente abituato a quel caos.
Non prestava attenzione a cosa dicessero dalla radio; importante era averla accesa e sentirla parlare.
Un modo per restare in compagnia. Non sentirsi completamente solo.
Consumò il pasto lentamente.
Solo una scusa con se stessi a lasciar credere che il vassoio non contenesse altro.
Tutte le sere così.
Finito il pasto spense la radio, e dopo averla riposta con cura si allontanò nel suo imponente ed incerto camminare.

Adele

Alta, magra; un fisico snello.
I capelli di un bel nero corvino divisi in due lunghe ciocche che scendevano dal cappellino con il nome della ditta fino a coprirle le orecchie.
Si muoveva svelta; nervosa nella ripetizione meccanica della stessa azione.
Adele lavorava da quasi un mese al self-service della stazione. Ripuliva i tavoli. Sistemava i vassoi frettolosamente abbandonati dai viaggiatori, in quello strano silos che spingeva come una carrozzina in una nursery; ripuliva velocemente il tavolino e via daccapo.
Strano; da bambina aveva sempre pensato che con quel nome fosse destinata ad altre cose.
Si vedeva insegnante circondata da tanti bambini in una scuola elementare con un giardino bellissimo pieno di alberi e fiori.
Sì, se avesse potuto scegliere avrebbe fatto la maestra. Ma Adele aveva capito da tempo che sarebbe stata la vita a scegliere per lei; era sempre stata scelta.
Anche questa sera avrebbe finito il suo turno e poi sarebbe andata a cambiarsi. Avrebbe indossato quella gonna comprata a saldi che rendeva giustizia al suo fisico longilineo pavoneggiandosi nello specchio.
Ma chi l'avrebbe notata? Adele usava non dare molta attenzione ai suoi colleghi di lavoro; preferiva evitare, con loro, qualsiasi rapporto fuori di quei tristi locali.
Anche con le donne aveva poca confidenza. La sua timidezza le faceva correre il rischio di lasciare intendere una altezzosità o superbia che non aveva mai avuto.
Nessuno ad attenderla, fuori.
Ogni sera tornava a casa stanca e sfinita ed avrebbe voluto sdraiarsi a riposare; magari davanti alla televisione oppure con quel libro che ricominciava a leggere continuamente daccapo senza mai riuscire a terminarlo.
Una volta a casa Adele aveva da accudire la mamma ed i suoi due fratelli più piccoli. Non v'era altri che lei a poterlo fare.
Il babbo era andato via ormai da qualche anno. Un'auto che a tutta velocità gli era piombata addosso mentre attraversava la strada glielo aveva tolto quando ancora avrebbe avuto bisogno di lui.
Quasi un mese tra la vita e la morte. La mamma non si era più riavuta dal dolore. Lei aveva dovuto abbandonare la scuola e provare a cercarsi un lavoro.
Ne aveva avuti diversi; forse quest'ultimo poteva essere quello buono. Nella sua testa pensava sempre al giorno in cui qualcuno sarebbe venuto a strapparla via da quell'angoscia. Avrebbe portato con sè la mamma; avrebbe avuto di che pagare qualcuno che la accudisse.
Anche i fratelli sarebbero venuti con lei fino a che fossero riusciti a trovare un lavoro ed ad andar via per la loro strada.
Lei non avrebbe più fatto il lavoro alla mensa della ferrovia. Sarebbe riuscita a completare gli studi; voleva diventare maestra.
Ci sarebbe riuscita. Avrebbe avuto dei figli suoi da accudire e non avrebbe più avuto i piedi così stanchi e doloranti.
Quando Adele si risvegliò con l'acre odore del latte bruciato sui fornelli, si rese conto che la stanchezza aveva avuto il sopravvento.
Si era addormentata sulla sedia con indosso ancora la gonna "bella".
Da dentro una voce triste pronunciava sommessamente il suo nome con una disperata intonazione.
Si ricominciava; era già l'indomani.

domenica 15 giugno 2008

Bidonville a Pompei.

Metà giugno.

Questo è il fine settimana in cui Pompei ospita il suo bidonville.

I gazebo bianchi si susseguono uno accanto all'altro sul lato della piazza che fiancheggia il giardino, proprio di fronte all'edificio che ospita la sede del comune; il palazzo De Fusco.

Una miscellanea di oggetti, libri, stampe, cose vecchie e meno vecchie; antiche? Chissà! forse soltanto per chi vuol crederci.

Molte cianfrusaglie; forse sapendoci fare si potrebbero anche trovare delle buone occasioni pur se non saprei davvero dire di cosa.

Alcuni degli oggetti in mostra mi riportano a ricordi dell'infanzia; ma quelli che vedo è giusto che restino lì. Comprare qualcosa significherebbe, nel breve volgere di qualche tempo, far finire tutto al centro di raccolta del comune.

Mi piace girare tra i gazebo; girare e stare a guardare per curiosità.

Per trovarmi a scavare nella mia storia e scoprire qualcosa che mi riporti ad immagini vissute.

Camminare lentamente tra quegli oggetti è un po' come leggere il racconto di un'esperienza similare alla mia; somigliante, non certo la mia; ritrovare cose accantonate nella memoria simili a quelle che han vissuto con me.

Non quindi ritrovare i miei ricordi - e come potrebbero esserlo!? – ma aiutato da quelli degli altri riportare alla superficie i miei che sembravano dimenticati.

Che senso avrebbe comprare cose che mi sarebbero distanti, inermi, senza parole?

I collezionisti son gente strana che si diverte a raccogliere ricordi di altri; di tutti tranne che i propri.

Comprano e nascondono in casa cose fredde, inerti… senza anima per godere della loro esclusiva presenza, del loro possesso; della gioia di aver tolto quel possesso ad altri che altrettanto avrebbero fatto con piacere se avessero potuto giunger per primi.

Solo immagini senza vita di cui non riusciranno ad ascoltare le voci; ricordi che non potranno raccontare la loro storia ma solo riflettere una squallida immagine di morte.

Immagini che disperatamente grideranno i loro racconti, nell'inutile tentativo di farsi ascoltare