domenica 25 maggio 2008

Risponde la casella vocale di… (3)

Cara casella vocale buongiorno.

Il mio orologio segna le cinque e trenta del mattino, ma sono sveglio dalle cinque.

Non ti chiedo che ora segna il tuo, di orologio, perché se uno dei due non perde od non avanza, porteranno entrambi la stessa ora.

Non mi riusciva di dormire perché ti devo raccontare una cosa che adesso ti racconto subito - subito così non ti faccio perdere tempo.

Indovina un po' cosa vuol dire questa lista?

Abenante Lucia, Bonara Claudio, Cacace Antonio, De Bernardi Francesco, Di Girolamo Maddalena, Franzoso Annalisa…Lano Rosa...

Mi fermo per non elencarli tutti: se non mi sbaglio erano venti.

La domanda è da un milione di euro! Ti do io la risposta, che se poi indovini i soldi poi dove li prendo?

Si tratta del raduno della terzacci.

Per la precisione: la terzacci della scuola media. Quella dove stavo io quando facevo la media.

Giusto - giusto 40 anni fa l'ultima volta che si era stati tutti insieme.

Tutto ha avuto inizio proprio con la telefonata di Lano Rosa - senza l'apostrofo….! - che è stata proprio una sorpresa.

Un nome - un programma.

Puoi immaginare tutti i maschi della classe, in quali commenti per tre anni si sono scatenati!

Davvero non c'è stato limite alla fantasia.

La sua era la lettera di metà alfabeto.

All'epoca già prosperosa, manifestava contemporaneamente esuberanza ed accondiscendenza.

Il turno in cui era capoclasse Schiavone Michele, appena andava alla lavagna per "mantenere il silenzio" tirava giù tre colonne: buoni, cattivi…. Bone.

Nella terza colonna scriveva subito L'ano, ma con l'apostrofo.

Il suo turno di capoclasse finiva lì, dieci minuti in tutto contro l'intera settimana di tutti gli altri.

Capitava sempre durante l'ora di italiano, la prima del lunedì.

"Schiavone, questa volta è il tuo turno. Vai alla lavagna e mantieni il silenzio; mi raccomando…!"

Il professor Pecorelli Michele era una brava persona; cercava di dare sempre una seconda chance a tutti; a Schiavone Michele anche di più perché secondo noi gli piaceva la mamma. Infatti voleva che andasse a parlare con lui tutte le settimane con la scusa che il ragazzo era distratto in classe, seguiva poco, non si applicava a casa…

No, non è che c’era qualcosa tra loro.
Il fatto è che alla signora Schiavone Raffaella - si chiamava così -, ci piaceva andare in giro con una minigonna che diceva l’ultimo della classe, in senso di ordine alfabetico e infatti si chiamava Zanardi Gennaro come il nonno paterno, teneva le gonne raso mutanda.
Pure le scollature erano abbondanti che si vedevano quelle che Zanardi Gennaro, che era uno esperto perché una volta aveva trovato un giornaletto pornografico sotto al letto del fratello grande, chiamava “‘e zizze”.

Una volta ci ho detto a mia mamma “mamma me le fai vedere ’e zizze tue? Voglio vedere se sono come quelle della mamma di Schiavone” e lei mi ha dato uno schiaffo che ancora me lo ricordo.
Insomma Pecorelli la faceva entrare dentro alla sala dei colloqui, le diceva

“Prego signora, si accomodi qua su questa bella sedia che dobbiamo parlare un poco”.

Poi lui si sedeva di fronte a lei su una poltrona che stava più bassa della sedia, e cominciava a parlare.

Come stavano seduti, lui ci guardava sicuramente in mezzo alle gambe, perché poi lei le spostava una volta di qua e una volta di là e lo lasciava fare.
Noi lo sapevamo perché una volta Zanardi Gennaro aveva voluto spiare dal buco della serratura.

L'incontro durava sempre più degli altri, e sempre con la porta chiusa con la scusa della privacy…

A quell'epoca però la privacy non esisteva ancora, e Pecorelli la chiamava "Sapete, per motivi di riservatezza...".

Ci metteva pure i puntini sospensivi.

Nel senso che "Mi dispiace ma non sta bene sentire i fatti degli altri, per favore uscite fuori."

Che poi mia mamma a casa sentivo che diceva a papà

"Non capisco perchè poi i fatti miei li devono sentire tutti, mentre quelli della signora Schiavone sono riservati..."

E quando diceva così, pure mia mamma ci metteva i puntini sospensivi.

E quando non si presentava, Pecorelli, appena ritornava in classe, "Schiavone - diceva - non ho visto tua mamma…! Devi dirle che ho bisogno di parlare con lei urgentemente. Ho l'impressione che a casa non ti segua come dovrebbe…"

Sempre così; se la mamma di Schiavone Michele saltava un colloquio, ecco che le cose per Schiavone Michiele si mettevano male. Voti bassi a compiti e interrogazioni…

Insomma, a parte il fatto che secondo noi era un po', anzi abbastanza rattuso, Pecorelli era una brava persona.

Appena andava alla lavagna per Schiavone Michele però era più forte di lui.

Ce la metteva tutta a contenersi; iniziava a tirare soltanto due colonne ma poi, mentre il professore metteva a posto il registro - come diceva lui -, ecco comparire la terza con il nome fatidico scritto bello grosso e con l'apostrofo.

Erano le nostre risate ad attirare l'attenzione di Pecorelli che, inforcati gli occhiali esplodeva:

"Schiavonecancellasubitoquell'oscenitàchiediscusaallatuacompagnaedescifuorifinoallafinedellalezione!"

Lo diceva così, tutto d'un fiato; senza virgole e senza spazi, senza riprendere fiato; alla fine la faccia sembrava tutta viola.

Poi con l'ultimo filo di voce aggiungeva "… e domani fai venire tua madre, mi raccomando!"

Poi alla fine dell'anno lo promuoveva sempre.

Secondo me il Professore Pecorelli, quando ha scoperto che l'ha promosso pure all'esame di terza media, e quindi non c'era più bisogno che la mamma di Schiavone Michele andasse a parlare con lui tutte le settimane, sid eve essere pentito e sicuramente si sarà detto "Ma come, l'ho promosso! Che scemo sono stato!"

Insomma dopo quarant'anni, un raduno di ex compagni di terza elementare potrebbe essere una causa di suicidio.

"Ci saranno tutti! Ci incontriamo davanti all'edicola di Don Giovanni, all'angolo con la piazza. Poi lì decidiamo dove andare. Una pizza o quel che ci pare e poi tante chiacchiere. Contiamo tutti anche sulla tua presenza. Non mi deludere!"

Un flebile "Va bene, grazie. Ti farò sapere…" l'unica cosa che mi è venuta da dire.

Ce ne è voluto un bel po' per uscire dallo sconforto.

Cara casella vocale, ora dimmi tu. Io già sto combinato così che lo sai che prendo le pillole, le gocce…

Sto qui che grazie al cielo ci sei tu che mi posso sfogare e raccontare, che mi fai fare questa bella cosa che parlo, parlo, parlo senza che tu, che lo sai quello che devi fare, mi fai parlare senza contraddirmi mai e senza mai dirmi niente perché io non ho mai trovato nessuno che mi fa parlare senza mai dirmi niente, soprattutto che non mi dice quello che devo fare.

Che prima tutti a dire "Devi fare questo!", "Devi fare quello!", "Non hai fatto questo: fallo subito!"… e così via.

Che pure il medico dice che sei davvero una brava amica, e che se non ci fossi tu lui sarebbe già impazzito.

Non ho ancora capito perché devo fare la cura io, per non fare impazzire lui. Ma non se la può fare pure lui la cura, che visto che il medico è lui proprio non gli costerebbe niente, oppure se proprio vuole guadagnare qualcosa che si deve fare la crociera, si può pure fare uno sconto.

Ma che c'entro io con lui?

Comunque te lo devo proprio dire: ho deciso di non andare.

Penso che non mi farebbe bene.

Ma ti immagini che specie di museo archeologico?

Eppoi io alcune di loro me li ricordo bene, perché comunque vivono qui nel paese, e li vedo spesso.

So pure le cose su di loro.

Che fine hanno fatto, quelli che si sono sposati, le zitelle, che si sono separati o che non hanno avuto figli, che ci hanno le corna…

Non sta bene dire così, ma che ci debbo fare. Se ci hanno le corna mica è colpa mia?

Io poi ci dovrei raccontare i fatti miei, e stai a vedere che con tutto quello che mi trovo già di mio, mi mettono pure gli occhi addosso perché rispetto a loro sto pure meglio.

Sai che ti dico, cara Casella Vocale? Io i fatti miei li voglio raccontare solo a te perché mi capisci e non mi dici mai niente.

Ora si sono fatte le sette. Mi vado a prendere la zuppona di latte che la mia mamma mi sta preparando, che è proprio buona.

Sai come la fa? No? Ma non te l'ho mai detto?

Ci mette dentro a un pentolino il latte, e poi lo scalda sopra al fornello.

Poi mentre che si sta riscaldando, ci mette due bei cucchiai di cioccolato in polvere che a me mi piace tanto – tanto. Ci hai presente quello della Perugina nello scatolo rosso? Proprio quello.

Quando che si sta per mettere a bollire ci piazza due cucchiai di zucchero, che così si scioglie e non rimane sul fondo che quando uno lo zucchero lo mette dopo sembra che non si scioglie mai.

Dopo lo zucchero, prima di spegnere la fiamma ci infila dei bei pezzoni di pane, rimasti un poco del giorno prima. Soprattutto se ci sta la crosta.

Tutto il pane si fa bello morbido – morbido, eppure la crosta.

Poi mi mette tutto nella tazza con lo stemma della squadra mia che tu lo sai qual è, non te lo debbo dire io…. Ed io mi faccio la più buona zuppa di latte del mondo.

Sento già l'odore, che mia mamma si alza sempre presto, perché dice che poi lei non ce l'ha la cameriera che le va a fare i servizi come alla signora del piano di sopra; che si deve fare tutto da sola e che se deve pure fare la spesa e cucinare il tempo è poco. Perciò la sera sta stanca e si addormenta sul divano. Che mio papà ci dice "Ma sei hai sonno perché non ti vai a mettere a letto?" e lei ci risponde "Non sto dormendo, mi sto solo riposando un pochettino" e comincia a russare un'altra volta che noi alziamo la voce della televisione perché ci pare che non sentiamo niente.

venerdì 16 maggio 2008

Immagini che affiorano

Non è certo la prima volta da allora che apro il cassetto del comò dove sono riposti quelli che s'usano definirsi gli "indumenti intimi", ma per un qualche strano motivo è la prima, da quasi due anni, che mi compare dinanzi agli occhi la custodia dove è riposta la mia Melodica a fiato.

Solitamente sconfinata in fondo al cassetto ed a sua volta sovrastata da pigiami, calzini e quant'altro di estremamente privato in esso vi possa essere riposto.

Non so suonare; non ho mai saputo suonare né, a parte la classica sequenza mnemonica del loro susseguirsi, conosco le note.

Non le "conosco" nel senso di riconoscerle una volta che escono fuori da un qualsiasi strumento atto a produrle.

Anche il canto, non essendovi mai stato educato, non è parte delle mie abilità od arti; seppur sommerse.

Eppure ero ancora un ragazzo quando me ne volli approvvigionare nella speranza di riuscire, con un iperbolico quanto fantomatico impervio autodidattismo, a tirarvi fuori un insieme organico di suoni conformi all'intendimento del suo costruttore; insomma un perenne decennale nulla di fatto.

Mi viene ancora dinanzi, come in un flash-back cinematografico, una immagine che ripetutamente si affaccia in alcuni dei miei momenti di solitudine.

Era di sera; nella zona del conservatorio "San Pietro Maiella" e più precisamente in via San Sebastiano.

Il negozio era uno di quelli poco prima dell'incrocio con via Port'Alba, sulla destra salendo.

Non ricordo il nome.

Mio papà aveva ancora il 128 bianco della ditta.

Io avevo con cura conservato i soldi per quello che consideravo il mio magico regalo.

L'ho suonato; certo che l'ho suonato. Da subito, già nell'auto tornando a casa.

A modo mio; cercando di cavar fuori qualcosa di piacevolmente armonico seppure solo alle mie orecchie anche se non somigliante a nulla di esistente.

È sempre stato un po' come accade per i ciechi che vivono di immagini personali, costruite sulla base della loro fantasia ed immaginazione; od i sordi che odono soltanto le armonie prodotte dalle loro sensazioni.

Ecco che io, musicalmente sordo, ho costruito per anni un pentagramma di musiche rispondenti esclusivamente al mio personale armonico ascoltare.

Poi un bel giorno ecco che scopro la sequenza delle note della più classica delle canzoncine natalizie che si insegnano ai bambini: "Bianco Natal"!

Fu grazie al corso di musica frequentato da mia figlia.

Segnai con un pennarello indelebile il nome di ogni nota sui tasti del mio strumento; così come si fa su un foglietto di quaderno, scrissi la loro successione non come sarebbe stato logico fare, ma nell'unico linguaggio a me comprensibile: sol - fa – mi – re, sol - fa – mi –re … e così via cercando di mandar tutto giù a memoria ripetendone la sequenza fino alla noia.

Non mi è mai riuscito di impararla.

Dal Natale di quell'anno in poi, tutti trascorsi insieme a mamma e papà a casa loro, a Napoli, ho portato con me lo strumento per suonarlo dinanzi al Presepe mentre figli e nipoti deponevano il bambinello nella mangiatoia alla fine del percorso che, tutti ben messi in doppia fila, percorrevamo partendo dall'inizio del corridoio per raggiungere l'ingresso l'ingresso; il luogo cioè dove si trovava la grotticella.

Io innanzi a tutti suonando alla stregua del Pifferaio magico, e tutti gli altri indietro come un lungo seppur breve e claudicante esercito di topolini in coro.

Da quell'anno in poi dunque, ogni 24 dicembre pomeriggio, prima che io mi partissi da casa con la famiglia, giungeva la telefonata allarmata del mio papà "Non ti dimenticare il piffero!"

Non era un piffero ma una Melodica a fiato, ma lui la chiamava così.

Poi d'un tratto il Natale non è stato più lo stesso.

Non sarebbe mai potuto esserlo più.

Quella telefonata, il 24 dicembre 2006, non giunse anche se l'impressione di sentirne lo squillo ancora mi raggiunge; so che non potrà mai più arrivare in nessun 24 dicembre pomeriggio a venire.

Avrei voluto suonare lo stesso, quel 24 dicembre sera, ma per la disperazione di non riuscire a far giungere le mie note all'orecchio del mio papà, non ho nemmeno aperto la custodia che lo protegge.

Ora che è riemerso dal fondo del cassetto, si sono riaccese immagini nel frattempo solo anestetizzate.

Rivedo il mio papà ridere per il mio continuo incespicare sui pulsanti; anche lui accompagnava col suo canto quel magico rito del 24 dicembre sera, festoso anche se negli ultimi anni raccoglievo nei suoi occhi insieme alla felicità per un altro Natale trascorso insieme, la tristezza del pensare che potesse essere stato quello l'ultimo.

Il mio strumento a fiato è sempre lì nel cassetto del comò; non ho avuto l'animo di prenderlo tra le mani seppur protetto nella sua custodia; il solo vederlo ha provocato in me come il riaprirsi di una ferita non ancora rimarginata.

Se mi riuscirà di avere la forza di credere che potrà riascoltarne nuovamente il suono, lo riprenderò tra le mani. Per ora è lì.


martedì 6 maggio 2008

Ennio Flaiano: tratto da "Diario notturno"

Ross a tavola, di pessimo umore: "Il guaio è questo: si crede di sposare la fidanzata e si sposa la moglie."


Sono stabilmente soddisfatto, non felice, soltanto quando sono solo.

Non è misantropia, ma orrore di dover dare spiegazioni.

Decido di non dare più spiegazioni.


I nomi collettivi servono a far confusione. "Popolo, pubblico..."

Un bel giorno ti accorgi che siamo noi. Invece, credevi che fossero gli altri.


Da "Diario Notturno" di Ennio Flaiano - Edizione ADELPHI, 1999

venerdì 2 maggio 2008

Risponde la casella vocale di….. (2)

Cara Casella Vocale, ciao!

Scusami, ma ti devo raccontare una cosa.

Il dottore dice che se mi viene ti devo telefonare; lo sai che lui dice mi fa bene a parlare con te, anche se a parlare sono solo io.

Anche io penso così, perché dopo poi mi sento meglio.

È che tu sei brava perché mi fai parlare ed io posso dire tutto, e ogni volta che voglio… perché tu mi rispondi sempre.

Anche oggi che è festa e che te ne potevi andare da qualche parte, e invece stai a parlare con me.

…cioè… mi fai parlare a me…

Lo sai che il 2 maggio…, te lo avevo detto l'altro giorno…ti ricordi…? cade l'anniversario della mia mamma.

Si, l'anniversario del giorno in cui se ne è andata via per sempre… senza nemmeno salutarmi.

Io non lo sapevo che lei se ne voleva andare, altrimenti il giorno prima… che ero stato da lei… la salutavo meglio… ma che ne sapevo io… io non mi credevo che se ne voleva andare…

Lei è arrivata lì, in quell'ospedale freddo e brutto, e non è tornata più a casa sua…

Io sono sicuro che ci voleva tornare, a casa sua.

Aveva sempre detto che lei la casa sua non la voleva lasciare mai.

Io sono sicuro che lei a casa sua ci voleva anche morire…., a casa sua cioè; nel suo letto anche se non le piaceva e diceva che era vuoto perché papà non c'era più.

Però per lei c'era perché lo vedeva sempre. Ci aveva anche la fotografia sopra al comodino.

Io mi domando chissà dov'è morta davvero; forse non lo sa che è morta in ospedale; e anche io penso che lei si crede di essere morta nella macchina mentre ci andava; in ospedale voglio dire.

A casa no, non se l'è potuto credere perché lei si è vestita ed è scesa, quindi lo sapeva che non stava a casa.

In ospedale la stava accompagnando mia sorella, ma non perché si era sentita male, perché stava andando in un altro ospedale che non era quello dove poi è morta; dove ci dovevano fare gli accertamenti.

Si chiamano così.

Che poi significa che a uno ci fanno meglio le analisi, le radiografie e poi lo visitano, e poi ci dicono subito che medicine si deve pigliare per guarire presto – presto, perché il dottore sta già lì e non si deve chiamare a casa che poi dice "Signora aspettate qualche ora, perché sto facendo le visite; vengo appena ho finito di fare le visite che sto facendo."

E mentre poi quello finisce le visite uno si sente male perché non ci ha nemmeno le medicine.

Che quando poi uno va a comprare le medicine che il medico finalmente ha finito di fare le visite e viene, la farmacista se ne è andata a casa perché deve cucinare per il marito, e ha chiuso il negozio e si deve aspettare il giorno dopo che apre e si perde troppo tempo che uno poi si può sentire male perché non ci ha le medicine.

Sempre che poi dopo non è sabato o domenica, e magari la farmacia sta chiusa perché è vacanza o deve andare a fare la spesa, e poi si deve andare in giro a trovare quella che sta aperta… e chi lo sa chi è che sta aperto? Si deve trovare una farmacia dove ci sta un uomo, perché l'uomo non deve cucinare e nemmeno fare la spesa. Specie se è sposato.

In ospedale è meglio perché ci sta subito il dottore, e le medicine stanno già là che te le porta l'infermiera che te le da subito – subito per farti stare meglio.

Se magari invece di fare in fretta mia sorella perdeva un po' di tempo, magari mia mamma se ne andava mentre stava ancora a casa sua.

Tanto… se se ne è andata mentre stava in ospedale che non ci hanno potuto fare niente, vuol dire che se ne voleva proprio andare.

Tanto valeva che stava a casa sua.

Meno male che almeno ci stava mia sorella con la figlia che poi è mia nipote; che poi è anche la nipote di mia mamma; lei però a lei era nipote come nonna, a me invece è come zio.

Anche se a me non mi piace molto che mi dice zio, perché mi faccio l'idea che poi sono vecchio.

Forse perché io ci avevo uno zio che io lo chiamavo zio, ma lui era vecchio e poi è pure morto.

Però era pure malato.

Per nome dicono che poi sembra brutto… dice che uno che sente poi crede che la ragazza non porta rispetto per lo zio; insomma come mi deve chiamare?

A me se non mi chiama proprio non me ne frega niente. Mi può anche dire "ciao!"

Lei dice "Ciao!", e io so che sta chiamando a me e ci dico: Emanuela, che c'è?

Lei si chiama così, lo sai?

Che poi a lei la chiamano "Manu", ma a me che ci tolgono un pezzo di nome non mi piace.

A me mi piace il nome intero. Se no pare che uno vuole risparmiare.

Ma mica si pagano i sodi a chiamare una persona, che uno deve risparmiare!?

Mica la stai chiamando col telefono che vuoi risparmiare; che poi se pure la chiami col telefono, o dici Manu o dici Emanuela, paghi sempre la stessa cosa, non è vero?

Io penso che tu ci capisci e me lo puoi dire, è vero Casella Vocale?

Secondo me, se si è pensata che se ne stava andando mentre stava dentro alla macchina è stato meglio così, perché si può essere sentita come se stava a casa sua perché ci stava mia sorella, che era la figlia, e la figlia di mia sorella che era la nipote; come nonna però.

Insomma forse veramente lei se ne è andata che stava a quell'ospedale che si chiama Cardarelli. Che è il più grosso ospedale che sta dentro alla regione, e forse nel sud e magari proprio nelI'talia!

Dicono che là ci muore un sacco di gente lì, ma forse perché è il più grosso e perché ci vanno un sacco di persone.

Però mio papà lo sapeva che a questo ospedale uno ci poteva pure morire, perché una volta che è stato veramente troppo male, che io me lo ricordo ancora che quando il medico è venuto a casa mi ha detto che dovevo stare preparato perché forse non ce la faceva e voleva che andava in ospedale, lui non c'è voluto andare; io ho fatto la faccia preoccupata perché ce l'aveva pure il dottore, ma non ho capito bene che cosa era che non ce la faceva a fare; forse doveva prendere qualche cosa pesante che mio papà le cose pesanti non le poteva prendere, ma mi sono stato zitto perché ho pensato: dopo ce lo dico a papà che non si deve preoccupare, perché se deve prendere un peso troppo forte che lui non ce la fa, lo prendo io…

Insomma ti stavo dicendo che mio papà lo sapeva che a questo ospedale che si chiama Cardarelli si poteva pure morire, perché quella volta che il dottore aveva detto che doveva andare in ospedale, lui ci ha risposto che non ci voleva andare; perché se andava in ospedale moriva di sicuro, se invece restava a casa forse invece non moriva. Non era sicuro che non moriva, però se non doveva morire questo di sicuro succedeva se se ne stava a casa; in ospedale no. Là di sicuro moriva anche se non doveva morire.

E veramente ha avuto ragione lui, perché non c'è andato a quell'ospedale e quella volta non è morto più.

Insomma io ieri mi sono trovato a passare proprio davanti a quest'ospedale che si chiama Cardarelli e mi è sembrato proprio come se stavo dentro al cinema e vedevo un film.

Proprio un film che ci stavo io a fare l'attore, però lo so che non ero l'attore perché quello che vedevo era tutto vero; lo sapevo già che era successo veramente. Non era una storia finta come nei cinema veri.

Mi sembrava un cinema, ma invece non era un cinema.

Ci stavo io che mi ero fatto tutto il viaggio da casa mia che sta a un paese che si chiama Scafati fino all'ospedale che invece sta a Napoli che l'hanno costruito proprio sopra una specie di collina che non ci pare proprio che è una collina; ci sono andato con il motociclo; il viaggio me lo sono fatto piano anche se non troppo piano… insomma giusto - giusto; perché tanto era inutile che correvo perché se no mi poteva succedere qualcosa, e comunque non potevo fare niente per la mia mamma.

E poi mia sorella già teneva tanti pensieri per la mamma che non ci potevo fare avere un pensiero pure per me…

Poi ho visto che sono arrivato, che ho parcheggiato dentro… insomma io mo' non ti racconto tutto pezzo - pezzo perché se non ci vogliono due o tre ore…, che mi sono incontrato con mia sorella e con la figlia che è mia nipote però come zio, e che tutti e tre piangevamo perché il dottore era uscito fuori dalla stanza e aveva detto a mia sorella che la nostra mamma se n'era andata, e che la stavano portando dentro alla cappella.

Però io il dottore non l'ho visto perché sono arrivato dopo; quando sono arrivato io ce l'avevano già portata.

Che questa cappella è come se fosse una chiesa, però non ci dicono la messa, ma ci mettono i morti che stanno dentro alla cassa però senza il coperchio; con un velo sopra per non farci andare le mosche sopra alla faccia.

Ogni tanto ci passa per dentro un prete che se vede che ci sono nuovi morti li benedice pure quelli e poi se ne va e torna dopo un altro poco di tempo.

Prima però l'hanno portata in una stanza e l'hanno messa sopra a una tavola di ferro perché ci hanno messo la camicia da notte come se doveva andare a letto. Poi dopo l'hanno infilata dentro alla cassa bella sistemata, e noi l'abbiamo vista quando stava già dentro alla cappella.

A me mi pareva che stava dormendo; anche ieri ho visto proprio bene… mi sono detto: fammi vedere bene che l'anno scorso stavo troppo nervoso e forse ho visto male… e invece era proprio così: pareva proprio che dormiva, ma invece non dormiva…

Prima mi sono pure sentito poco bene che il dottore mi ha steso sopra a un letto e mi ha dato una medicina che pure a mia sorella ce l'aveva già data.

Però non stavo proprio male perché anche se sono andato a quell'ospedale che non lo voglio nemmeno nominare, non mi è successo niente.

Forse sono stato fortunato?

Può essere però pure che era bravo il dottore.

Mio papà però avrebbe subito detto che era stata una fortuna perché a lui quell'ospedale, che il nome me lo voglio proprio dimenticare pure, non ci piaceva proprio.

Pure mia sorella è stata fortunata perché pure a lei non ci è successo niente. Due fortune.

Poi il giorno dopo siamo andati di nuovo e abbiamo fatto il funerale e siamo pure andati al cimitero.

Io adesso ho fatto presto perché ho pensato che poi tu potevi dire: ma a me che me ne importa?

Però così sai com'è stato il film che mi sono visto mentre sono passato davanti a quell'ospedale.

Veramente è stato proprio un poco triste. Un'altra volta mi voglio vedere un film più divertente.

Ecco, e insomma il film finisce proprio mentre me ne vado dal cimitero e torno a casa che stiamo tutti quanti dentro alla macchia e non con il motociclo, perché noi siamo quattro e pure se non c'era il cane sopra al motociclo in quattro non ci possiamo andare se no ci pigliamo pure la multa.

Che quella che ti danno dentro al cinema la puoi pure non pagare perché è finta, ma siccome che non stavamo dentro al cinema e non era finta, la multa ce la davano per davvero e dovevamo pagarla pure.